Nell’audizione in Parlamento il presidente dell’Istat ha documentato la perdita di potere di acquisto dei salari di 3,2 milioni di dipendenti della Pubblica Amministrazione.
Nella manovra di Bilancio appena presentata troviamo lo stanziamento economico per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego fino al 2030, più che una previsione di spesa o “un importante cambiamento di rotta rispetto a quanto osservato nell’ultimo decennio” pensiamo sia una autentica sventura, tenuto conto di alcune semplici considerazioni.
Non siamo davanti a una inversione di tendenza rispetto alla «frammentazione del processo di definizione del quadro generale delle risorse destinate alla contrattazione collettiva» come fa intendere la Corte dei Conti, ma alla quantificazione di aumenti contrattuali decisi al ribasso visto che i dati dell’inflazione presunta si sono dimostrati assai inferiori alla realtà.
Se viene quantificata una certa somma pensando che il costo della vita aumenti ad esempio del 3%, si commettono due errori di fondo: il primo ipotizzare la crescita dell’economia senza prendere in considerazione eventi come la guerra che hanno accresciuto di 5 volte il costo dei prodotti energetici dopo l’embargo alla Russia, il secondo non poggiare l’analisi su dati certi che poi non tengono conto dei reali andamenti economici.
E se la spesa pubblica prevista si dimostrerà inferiore al reale fabbisogno, con quali fondi saranno supportati i rinnovi contrattuali?
Prendiamo i dati dell’ufficio di statistica: le retribuzioni contrattuali della Pubblica amministraziobe sono aumentate del 14,1%, assai meno di quanto avvenuto in molti settori del privato ma al contempo l’inflazione, nell’ultimo triennio, è cresciuta del 32%. Se avessimo stanziato una cifra per i rinnovi contrattuali in base alle previsioni statistiche, oggi ci ritroveremmo davanti non ad ipotetici (ma comunque insufficienti) aumenti attorno al 6%, ma a cifre ancora più basse.
Urge poi considerare anche le dinamiche proprie della contrattazione nazionale con quella indennità di vacanza contrattuale che prevede circa 12 euro al mese elargendo una mancetta che sarà parte dei futuri aumenti. E aggiungiamo l’indice Ipca che non prendendo in considerazione il prezzo dei prodotti energetici importati, alla fine determina rinnovi contrattuali di gran lunga inferiori al reale costo della vita.
È ormai acclarato che i ritardi dei rinnovi contrattuali non sono solo legati al difficile, fino ad un certo punto, computo del costo della vita ma alle logiche imperanti di austerità salariale. I CCNL arrivano con anni di ritardi perché esiste la miseria della indennità di vacanza contrattuale, voluta da Cgil Cisl Uil, che permette all’Aran e alle associazioni datoriali di ritardare la firma dei nuovi contratti, non solo per le difficoltà nella quantificazione delle risorse previa loro copertura nei bilanci degli Enti locali e dello Stato, anche perché alla fine se la cavano con pochi spiccioli.
Sono quindi le regole della contrattazione nazionale ad essere perdenti fin dall’inizio ma di questo Landini o Bombardieri non fanno parola.
In una economia di guerra è scontata l’impennata dei prezzi, la stessa economia di guerra che poi determina il ritardo dei rinnovi contrattuali e la perdita di potere di acquisto non agganciando i salari né all’inflazione né al reale costo della vita.
Prendiamo infine ad esempio le Funzioni Locali che devono pagarsi con fondi propri i rinnovi contrattuali della sanità e degli enti locali, se il Governo non stanzia loro le dovute risorse alla fine mancheranno i soldi e si dovranno tagliare i servizi od esternalizzarli.
E quindi? Il governo gioca letteralmente a nascondino prevedendo aumenti bassi per i prossimi rinnovi contrattuali con previsioni decennali che stando agli andamenti economici saranno letteralmente smentiti.
Servano a tal riguardo solo alcune considerazioni estrapolate dall’audizione in Parlamento del presidente Istat:
«Nell’area euro il Pil nel terzo trimestre è aumentato dello 0,4% su base congiunturale, dopo il +0,2% del secondo; l’andamento sottende dinamiche eterogenee nei principali paesi: una crescita inattesa in Germania (+0,2%), un ritmo più significativo in Francia (+0,4%) e ancor più elevato in Spagna (+0,8%). Le prospettive a breve termine sembrano tuttavia in peggioramento: a ottobre, l’Economic Sentiment Indicator risulta in calo di 0,7 punti, a causa dalla marcata flessione della fiducia nell’industria, cui si è contrapposto il miglioramento marginale nel commercio al dettaglio, nelle costruzioni e nella fiducia dei consumatori; l’indice dei servizi è rimasto sostanzialmente stabile.
Secondo le più recenti stime del Fondo Monetario Internazionale, la crescita dell’area euro nell’anno in corso sarà pari allo 0,8%, mentre nel 2025 la ripresa ciclica in Germania favorirebbe una lieve accelerazione del ritmo di espansione dell’intera area (+1,2%)».
Se pensiamo al reale costo della vita si comprende come le previsioni a lungo termine siano alquanto fallaci a fronte di una crescita dell’economia inferiore a un punto di PIL all’anno. E con la minaccia dei dazi ai prodotti europei destinati al mercato Usa queste già tetre previsioni saranno forse smentite dal reale andamento dell’economia?
E a quel punto i già esigui stanziamenti contrattuali saranno rivisti individuando le risorse necessarie al recupero del potere di acquisto? E quali saranno i costi sociali per far quadrare i conti se si continua a ridurre le tasse alle imprese?
Federico Giusti